Alert: questa versione di newsletter è più lunga del solito, ho pensato che questo fosse il periodo migliore per andare un po’ più in profondità su un problema che mi sta molto a cuore.
"A volte non andavo in bagno perché non volevo perdere tempo. Ho avuto diverse infezioni urinarie."
"Riuscivo a dormire solo 3 notti a settimana. Ero mentalmente e fisicamente esausta, ma non riuscivo a spegnere il cervello."
"Non riuscivo ad articolare le mie emozioni: anche se fisicamente niente era rotto io mi sentivo paralizzata."
"Ho chiamato uno dei miei ex compagni di classe e gli ho detto che stavo per lasciare i bambini, per andare a buttarmi sotto un autobus."
“Ho investito una persona e non mi sono fermata."
Queste frasi sono state pronunciate da persone in posizioni apicali, stimate dai loro attuali datori di lavoro e con un ottimo mercato se decidessero di cambiare azienda. Persone che oltre a questo hanno tutte un’altra cosa in comune: sono donne.
The Burnout Study in Women è uno studio realizzato pochi mesi fa dalla società Egon Zehnder, specializzata nella consulenza manageriale, in collaborazione con la società di ricerca Trueve Lab di Atlanta e il Dipartimento di Psicologia Industriale dell’Università di Tennessee.
L’analisi vuole esplorare le motivazioni dietro i casi di burnout di donne che definiremmo “di successo” o “di potere”.
Cos’è il burnout?
Prima di tutto ci tengo a chiarire cosa intendiamo per burnout, poiché questa è una di quelle parole di cui da un po’ di tempo abusiamo (già questo è un dato su cui riflettere), e il pericolo è appiattirne il significato.
Sta quasi diventando di moda dire “sono in burnout”, in gergo colloquiale, quasi un modo per “vantarsi” di avere tante cose da fare. In realtà, si tratta di un grave stato di esaurimento fisico e mentale che, se non curato, può avere conseguenze disastrose per la persona che ne soffre e per chi le sta a fianco.
II termine è stato usato per la prima volta negli anni ’70 negli Stati Uniti dalla professoressa di psicologia sociale Christina Maslach per identificare una sindrome tipica delle professioni di cura (ad esempio dei medici e degli infermieri): la sindrome da burnout, per l’appunto. L’origine del termine è dunque associata a professioni caratterizzate da una elevata implicazione relazionale, il che fornisce qualche indizio a proposito della apparentemente strana correlazione tra questa sindrome e le donne in posizioni di grande responsabilità.
Poi nel 1981 il termine è diventato di uso più comune, quando Christina Maslach, insieme alla ricercatrice Susan E. Jackson, ha elaborato il Maslach Burnout Inventory, un test che misura il livello di manifestazione dei sintomi da burnout lavorativo.
Nel 2019 la sindrome da burnout è stata riconosciuta dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) come “uno dei fattori che influenzano lo stato di salute” di un individuo.
Il burnout, come definito dall’OMS, è caratterizzato da tre dimensioni:
1. esaurimento emotivo e fisico: la persona si sente prosciugata, incapace di riposare e allo stesso tempo di pianificare o affrontare nuovi progetti;
2. depersonalizzazione e cinismo: la persona assume un atteggiamento freddo e distaccato nei confronti delle persone che la circondano, dai colleghi ai familiari;
N.B. queste prime fasi possono essere transitorie e dunque venire sottovalutate.
3. inefficienza nella sfera della realizzazione personale: la persona pensa di essere inadeguata a qualsiasi cosa, non riesce a concentrarsi, continua a domandarsi se sta facendo abbastanza e se lo fa abbastanza bene, smette di celebrare se stessa, smette di praticare le attività che ama per la troppa stanchezza o per “mancanza di tempo”.
Insorge insomma una sorta di scissione interna: diverse “voci interiori” alimentano un conflitto, che dal di fuori è solo parzialmente visibile e che conduce a una sostanziale immobilità emotiva e mentale oltre che a problemi psicofisici (es. disturbi del sonno, alimentari, d’ansia) che possono sfociare in ricoveri, fino a mettere potenzialmente a rischio la nostra vita.
Perché le donne?
Posto che tutti sono suscettibili di soffrire di una qualche forma di burnout durante la propria vita, sembra proprio che le donne lavoratrici, e ancor di più le madri lavoratrici, siano più predisposte.
Infatti, il burnout non deriva solo da fattori di stress legati al lavoro ma anche da aspetti connessi agli altri ambiti in cui la persona sente di avere delle responsabilità. E questi ambiti si moltiplicano per le donne e madri lavoratrici: gestire la casa, i programmi dei figli, pianificare le attività della famiglia, coordinare gli appuntamenti privati con quelli professionali, contribuisce ad aggravare il carico mentale. Questo, unitamente alle aspettative sul lavoro, può facilmente portare al rischio burnout.
Perché le leader d’azienda?
Tornando alla ricerca The Burnout Study in Women, questa ha coinvolto anche una serie di leader C-level a cui è stato chiesto come mai sono arrivate/sentono che potrebbero arrivare al burnout. Di seguito un riassunto delle principali evidenze emerse, che a vario titolo affronto anche nel libro Il senso del potere.
Paura di perdere potere
Una delle risposte ricorrenti riguarda il fatto che le donne hanno dovuto faticare e combattere molto più degli uomini per guadagnare un posto di potere. Ecco che qualsiasi “passo indietro”, come ad esempio avanzare la richiesta di un miglior equilibrio tra vita privata e vita lavorativa, spesso non viene neanche preso in considerazione, in parte a causa della paura di perdere le conquiste fatte e in parte per il senso di inferiorità che ancora viviamo. Come se dire “no” fosse una conferma della debolezza che gli altri vedono in noi.
Inoltre, poiché abbiamo tanto agognato quel potere fatto di soldi, prestigio sociale e di essere chiamate “boss”, iniziamo a identificarci con questo ruolo, a innamorarci di un’idea di noi stesse pur senza interrogarci profondamente se ci rispecchia davvero. È più forte la brama di vedere quell’idea realizzarsi e l’adrenalina per averla finalmente ottenuta.
Questo pensiero viene alimentato anche dal fatto che storicamente le attività di cura non vengono considerate “di valore”, poiché ad esse non è attribuito uno stipendio. Lo stereotipo di attività o status di “potere” nasce infatti attaccato al denaro e alla possibilità di quantificare quell’attività in reddito prodotto. Ecco che non vediamo il potere connesso alla gestione della famiglia, o in generale alla capacità di tessere relazioni.
Confini poco definiti
Molte delle donne intervistate hanno in comune dei datori di lavoro con pretese molto alte, che chiedono una reperibilità di almeno dieci ore lavorative giornaliere. A questo si collega l’assenza di un confine netto tra attività lavorativa e vita personale, il che porta a una pericolosa confusione e fusione identitaria, tra la nostra identità di persona e quella di lavoratrice; dove la donna “di potere”, per come lo definiamo nella nostra mente a partire da quanto specificato nel paragrafo sopra, prevale per prestigio e fascino sull’altra e la ingloba, perché nell’altra non vediamo lo stesso valore.
Così diventiamo il lavoro che svolgiamo, e anche se qualcosa dentro di noi si muove e si ribella, lo teniamo a freno. Questo sforamento del lavoro nel territorio del privato corrobora infatti la convinzione che “non abbiamo tempo” - pur se lo vorremmo - per dar sfogo a quella parte di identità fatta di attività “altre”, come giocare con i figli, gli hobby, vivere la compagnia degli amici, del compagno/a o di altri cari. Attività che sceglieremmo autonomamente di svolgere, con un moto dall’interno e non condizionate da altri.
Il lavoro invisibile: la DEI
In questo caso non si tratta del lavoro “invisibile” collegato alla vita domestica (anch’esso percepito come “invisibile” per i motivi descritti precedentemente) ma a quello correlato all’essere considerata, di default, ambassador della DEI in azienda.
Quando le donne arrivano a ricoprire posizioni di leadership, sorge l’ennesima aspettativa verso di loro: quella che si adoperino per promuovere l’inclusività che loro stesse rappresentano, prendendosi cura delle altre donne, formando le persone più giovani e in generale perseguendo un miglioramento della cultura aziendale, verso una maggiore diversità, equità e inclusione (DEI).
“Sei l’unica che può farlo”, “Hai una grande responsabilità a riguardo” si sentono dire spesso. Peccato che questo lavoro addizionale non venga remunerato come tale. Inoltre, a causa della scarsità di donne ai vertici, spesso questo carico di responsabilità ricade su una sola persona.
Una sola corsia di carriera
In verità molte donne in posizioni apicali desidererebbero fare un passo indietro dal lavoro, anche solo per qualche tempo. Tuttavia, sentono che farlo comporterebbe un’uscita non temporanea ma definitiva dal mercato del lavoro e dal livello che hanno in azienda. La percezione diffusa - che spesso è realtà - è che se esci dalla “corsia veloce” della carriera, non ci sia modo di rientrare. Questo porta anche all’incapacità o alla difficoltà di delegare, per non sembrare bisognosa di aiuto e quindi debole. Dunque le donne si ritrovano a non rallentare mai, anche quando sentono l’esigenza di farlo. Anche questo contribuisce alla “lotta” dentro noi stesse.
L’arte di soffrire col sorriso
In mezzo a tutte queste difficoltà, l’aggravante è che “non puoi parlarne”. Ovvero c’è la percezione diffusa che sul posto di lavoro non sia opportuno parlare delle difficoltà legate ad esempio alla maternità o al carico mentale, perché aleggia l’idea che il capo o i colleghi la prenderebbero come una scusa per non essere abbastanza performanti. Ecco che queste donne gestiscono tutto e tutti dimostrandosi sempre disponibili e sorridendo mentre soffrono. Questo innegabilmente innesca un cortocircuito mentale fatto di sensi di colpa e sensazione di non fare bene nulla.
Come si può modificare questo circolo?
Da imprenditrice, credo siano innanzitutto le aziende a doversi interrogare su come non perdere i propri talenti. Considerato che il 50% della forza lavoro globale è rappresentato da donne e che il costo per sostituire una dipendente senior è di circa 1,5-2 volte lo stipendio della persona stessa (Gallup, 2023)
non ci vuole un genio a comprendere quale perdita stanno affrontando le aziende che non si prendono cura del proprio management.
Inoltre, prima di arrivare al licenziamento c’è la demotivazione e il conseguente peggioramento della performance collegato anche alle micro-aggressioni che le donne subiscono sul lavoro: il report McKinsey Women in the Workplace (2023) rileva che le donne sono due volte più propense a essere scambiate per qualcuno di livello inferiore e ad ascoltare commenti sul loro stato emotivo. Il 78% delle donne che affrontano queste micro-aggressioni modifica il proprio aspetto o il proprio comportamento per proteggersi, e questo influisce sia sul livello di stress che sulla capacità di esprimersi; quest’ultima, se alimentata da iniziative che rendano più facile la vita delle persone in azienda, porterebbe a una maggiore diversità di prospettive nel team e aumenterebbe il grado di innovazione.
Fortunatamente ci sono due nuove generazioni - una delle quali già ampiamente attiva nel mondo del lavoro - che stanno portando le imprese a cambiare il modo in cui (non) affrontano il problema dei carichi mentali, della scarsa cultura della diversità e della iper-competitività e performatività, nel lavoro in generale e in particolare tra le posizioni di vertice.
Si tratta dei lavoratori Millennial e della Gen Z: in molti dichiarano di voler rinunciare a ruoli di leadership perché non sono disposti a sacrificare la loro vita personale o il loro benessere mentale. Inoltre, McKinsey rileva che l'80% dei dipendenti appartenenti a Gen Z e Millennial sarebbero pronti a lasciare il lavoro a causa di una cultura aziendale tossica.
In attesa di auspicabili passi in avanti per migliorare la situazione in azienda, cosa possono fare le donne che oggi si sentono rispecchiate in una simile condizione di esaurimento fisico ed emotivo?
Imparare a vedere i segnali
Innanzitutto, il problema va visto per essere affrontato. A tal proposito, bisogna considerare che molte delle donne intervistate nella survey di McKinsey dichiarano di sentire qualcosa che non va, a livello profondo, ma che non riuscivano a esprimerlo. Non riuscivano a dire a loro stesse e agli altri ciò che provavano.
Dunque, innanzitutto è importante porsi alcune domande, per riconoscere i segnali precoci di burnout:
- sento che qualcosa dentro di me è “rotto”?
- faccio fatica a concentrarmi?
- mi sento spesso esausta?
- mi sento spesso nervosa e infastidita?
- mi sento spesso sopraffatta, anche dalle piccole cose?
- mi sento spesso confusa o dimentico le cose?
- ho difficoltà nel dormire?
- provo del dolore fisico anche in assenza di incidenti?
- provo una sensazione di solitudine?
- mi sento in colpa perché non sto dando il massimo?
- porto regolarmente il lavoro a casa?
- lavoro mentre mangio?
Una volta riconosciuti i segnali diventa fondamentale saper chiedere aiuto.
In questo noi donne siamo più virtuose: a livello nazionale, secondo i dati analizzati da Unobravo (2023), in Italia la maggioranza delle persone che cercano supporto psicologico per problematiche connesse al lavoro è composta da donne, che sono infatti il 66,3%, contro il 33,7% degli uomini. Questo apre una triste parentesi, correlata: secondo l’ultimo dato ISTAT disponibile il 79% dei suicidi in Italia vede protagonisti gli uomini. A riprova del fatto che cercare a tutti i costi di risolvere da soli i problemi, per evitare di essere considerati deboli o poco virili/potenti, conduce in una sola direzione.
Chiedere aiuto significa invece dimostrare forza in noi stesse e fiducia nel futuro. E tra le altre cose rende più facile il percorso che ci porterà a porre dei confini tra la vita personale e quella lavorativa. Per non stravolgere tutto d’un tratto la routine, si potrebbe iniziare con dei piccoli momenti di pausa: ad esempio, dedicandosi a brevi sessioni di respirazione, o a passeggiate all’aria aperta; col tempo, questi momenti potranno allungarsi, ad esempio concedendoci uno sport o un’altra attività, sole o con chi amiamo. Io ad esempio, ho ritrovato uno spazio per me e per il mio compagno attraverso lezioni di ballo serali.
C’è poi l’opportunità, anche grazie alla terapia, di riflettere su cosa è potere per noi.
Ricordandoci, come descritto ne Il senso del potere, che spesso associamo automaticamente il “potere” a un insieme di elementi che hanno più a che fare con l’universo patriarcal-maschile che con il nostro modo di concepire il mondo.
Uso il verbo “concepire” non a caso, poiché in quanto donne, a prescindere dal se abbiamo o meno desiderio o possibilità di farlo, l’idea della procreazione, di qualcosa che viene dal nostro interno e va nel mondo, condiziona il modo in cui percepiamo autenticamente il potere.
Io ad esempio mi sento potente quando vedo un progetto che ho contribuito a concepire prendere vita o quando aiuto altre persone a me care, fornendogli strumenti opportuni per comprendere le loro inclinazioni e farle fiorire.
Questi esempi valgono per me e non è detto che vi risuonino… ma sono certa che se vi soffermate su qualcosa che avete fatto perché lo desideravate fortemente, vi ritroverete anche voi a sentire “potere”!
Questo potere è drasticamente diverso da quello che vi viene affibbiato dall’esterno perché “siete cape”, perché “avete un job title prestigioso” o “siete donne con le palle”. Tutti modi di intendere il potere normati dall’esterno. Provate a sentire il potere da dentro e osservate l’effetto che fa.
Infine, comunicatelo!
L’elaborazione successiva a un nuovo apprendimento è un potente strumento di consolidamento delle consapevolezze. Potrete iniziare a comunicare con voi stesse ad esempio tenendo un diario, per allenarvi a usare questo nuovo vocabolario di potere e per ricomporre un equilibrio interiore, per far pace con voi stesse. Un po’ come ho fatto io scrivendo Il senso del potere 🙂
Poi, pian piano, potreste avviare una condivisione con chi avete vicino, persone che vi vogliono bene e che desiderano il vostro bene.
Potreste unire i momenti di pausa di cui sopra con questo allenamento, pianificando dei pranzi o altri spazi liberi dal lavoro, da passare con amiche, persone di cui vi fidate e che sapete che vi accoglieranno autenticamente… fra l’altro, in questo modo potreste ritrovarvi a diventare una risorsa preziosa per loro, per incoraggiarle a fare altrettanto.
In sintesi, vi auguro di spezzare il circolo vizioso e innescarne di nuovi, virtuosi. Vi auguro di rifletterci, magari durante le vacanze se avrete il privilegio di farle,
e di ritrovarvi a settembre con il seme di un nuovo potere.
🙏 Grazie a Martina Nieddu, per avermi aiutata in queste ricerche, e come sempre alla preziosa Giulia Angeletti per il suo editing.
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Idee di Potere è la logica prosecuzione di Nati per cambiare, il progetto che racconta come si può stimolare un cambiamento in azienda a partire dai nostri desideri e inclinazioni individuali e non dal volere dei nostrǝ capǝ . Volete saperne di più del progetto Nati per cambiare?
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