Fino a qualche tempo fa la mia idea di potere era fortemente connessa al concetto di controllo, per motivi legati alla mia vita personale e professionale.
Personalmente, ho iniziato ad "assumere potere" su me stessa a 18 anni.
Il mio strumento di potere era il cibo: lo controllavo ossessivamente. Come molte, rincorrevo un ideale di me che non esiste. Avevo l’idea che controllandomi dimostravo di avere potere. Crescendo, grazie alle persone giuste, ho acquisito forza e abbandonato questa abitudine. Pensavo.
Professionalmente, ho lavorato in grandi realtà, fortemente gerarchizzate, o anche piccole ma dove il potere spesso era espresso attraverso forme più o meno esplicite di sottomissione.
E nonostante sentissi di non riconoscermi in quell’idea di potere, in seguito mi sono resa conto che la applicavo.
Insomma, nonostante negli anni ho imparato a conoscermi meglio e a lasciare andare un'idea stereotipata di potere, non l’ho mai fatto fino in fondo.
Me ne sono resa conto in terapia.
Quando ho capito che avevo scelto un compagno che mi "aiutava" a tenere in piedi questa dinamica: «Io faccio la donna autonoma e forte ma in realtà devo controllare tutto. Tu mi fai da spalla, sei disponibile a cogliere ogni mia iniziativa, in realtà dai compimento al mio desiderio di controllo».
Siamo complici. Ugualmente responsabili. Un paradosso, lo chiamano in psicologia: tu fai all’altro esattamente quello che non vorresti.
Questa dinamica ti fa dipendere dall'altro più che mai.
E l'altro a volte è il compagno, a volte è il tuo capo, a volte sono i tuoi dipendenti.
Per uscirne, è fondamentale riconoscerne le origini: su cosa fondiamo la nostra idea di potere? Io ho avuto il privilegio di indagarlo.
Nel momento in cui ero convinta di aver sviluppato una modalità di gestione dei rapporti di potere sana, avulsa da schemi tossici, grazie alla terapia ho compreso una nuova verità: certi schemi erano incancreniti in me e derivavano da condizionamenti difficili da riconoscere nella mia vita, se guardata da fuori.
Me li ero costruiti da dentro, rifacendomi a comportamenti singoli e collettivi che ho visto e vissuto, anche nell’infanzia, legati soprattutto - ma non solo - a figure maschili. Per uscire da questi schemi, ho dovuto mettere tutto in discussione.
Quella è stata la parte più difficile: abbandonare qualcosa che, pur compensando delle mancanze, tutto sommato ti fa sentire bene, per seguire qualcos’altro che non si conosce.
Nuovamente, sottolineo che ho potuto farlo per il mio privilegio: in pochi possono mettere in discussione tutto quello che hanno, in ambito lavorativo come in quello personale.
Da cosa sono partita? Ho seguito alcuni segnali di insofferenza, miei e di persone che si relazionano con me nella vita personale e nel lavoro. Ho voluto elaborare se e quanto dipendessero da me e dalla mia idea di potere.
Ad esempio, poiché per il mio bias potere equivaleva a controllo, dato che io volevo il "bene" dei miei collaboratori, desideravo lo stesso per loro: volevo che fossero autonomi e prendessero da soli delle decisioni, anche in fasi della loro vita lavorativa in cui questa autonomia non erano pronti a esercitarla.
Non tutti sono sempre pronti ad assumere un certo ruolo e responsabilità, ed è giusto e funzionale rispettare le loro esigenze. Così come non tutti, e non sempre, possono prendere decisioni in azienda.
Questo per sfatare le filosofie qualunquiste della delega a ogni costo a cui, a scanso di equivoci, non credo più.
Quando osservo delle insofferenze verso il mio modo di esercitare il potere, affronto questo conflitto con i miei collaboratori, analizzo cosa può cambiare in termini di processi e poi quel cambiamento lo faccio accadere, con comunicazioni precise, fatti reali.
È importante che dal conflitto - che non va evitato - emergano azioni concrete di tentativo di ricomposizione dell’equilibrio: le persone devono vedere questi cambiamenti accadere.
Il compromesso, che spesso adottano i capi, del «ho capito che dobbiamo cambiare qualcosa e annuncio che lo faremo, poi si vedrà», non funziona. Anzi, è deleterio.
Come diceva Mary Parker Follet, assistente sociale statunitense, nonché una delle prime guru del management al mondo:
«Se otteniamo un compromesso, il conflitto si ripresenterà in qualche altra forma, perché nel compromesso rinunciamo a parte del nostro desiderio».
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